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I LUTTI DEL VAJONT

 

La tragedia del Vajont non ha inizio il 9/10/1963 quando dal monte Toc si è staccata una frana stimata 260 milioni di metri cubi e che, precipitando nel bacino del lago, ha raggiunto le sponde di Casso, Erto e spazzato via Longarone e molte frazioni circostanti (Bepi Zanfron, Vajont , 2000), ma quando, anni prima, qualcuno decise di costruirla. Molti tipi di lutti, psicologici e fisici, si sono succeduti e ancora oggi, frequentando quei luoghi della Memoria, avvengono.

 

Il lutto è una perdita e crea un grande senso di vuolto e di disperazione, stordimento, dolore profondo, inconsolabile, che trasforma la persona coinvolta. In psicologia per poter asserire che un cambiamento è positivo, è utile valutare la qualità del nuovo adattamento, monitorando come la persona ha elaborato il lutto. Non è scontato sottolineare che molte persone la perdita non la elaborano in modo positivo, ed il risultato è un lutto patologico ( Bowlby J., Attaccamento e perdita, Bollati Boringhieri, 1983). In questa umana tragedia molte perdite si sono volute dimenticare, rimuovere, negare, per l’incapacità delle persone coinvolte di dare un posto a sentimenti forti e potenti come quelli della scomparse plurima di genti e comunità intere. Molti processi di elaborazione devono ancora oggi essere fatti per poter dire che la tragedia del Vajont è stata affrontata e superata, ma spesso le difese sono inconsapevoli, segno che il trauma è più presente di quanto non si voglia far credere.

 

Per meglio capire di che cosa ancora oggi soffra la Comunità restante, bisogna fare un passo indietro e capire dal punto di vista psicologico che cosa sia un lutto e le sue caratteristiche (ibidem).


Il lutto presenta quattro fasi : stordimento, ricerca e struggimento per ciò che si è perso, disorganizzazione e disperazione, fase di riorganizzazione. La prima fase corrisponde all’onda che ha travolto le sponde del lago artificiale, Longarone e le sue frazioni, le case, i sogni, gli animali, i ricordi e le speranze. Tutto ciò che il vento, l’acqua e il fango si sono portati via ha determinato incredulità per chi arriva subito dopo, per gli Alpini e tutti i soccorritori; al mattino, infatti, tutto appare ancora più sconvolgente, visi attoniti e spaventati, Superstiti che cercano la propria casa, o qualcosa che la ricordi, gente ammutolita che non sa più dove siano il paese ed i cari che la notte prima dormivano e sono rimasti travolti. Il primo momento è quello della reazione a quanto è accaduto, con implicita incredulità, come di fronte al Campanile di Pirago, rimasto in piedi miracolosamente; ma lo stesso accade dopo, anni dopo, di fronte alla Chiesa nuova di Longarone assolutamente contrastante col sentimento storico e di memoria culturale dei Sopravvissuti, che non sentono alcun legame affettivo e commemorativo verso una costruzione lontana dalle radici della prima Comunità. E lo stesso vale per Erto: appena sotto le nuove case c’è un paese fantasma, abbandonato per il pericolo imminente del post- frana, ora mostra la sua anima profondamente diversa da quella ripulita dal fango. Ma un momento di stordimento assoluto è il Cimitero Monumentale di Fortogna: un luogo della Memoria che poco ha favorito l’elaborazione positiva del lutto per chi andava a trovare i propri cari. Non un fiore, non una foto, tutto impersonale e freddo, che lava via i ricordi al posto di favorirli, che rimuove i fatti emotivi piuttosto che dar loro uno spazio fisico e mentale.


Dopo questa prima fase, i Superstiti, i familiari accorsi sul luogo e tutti i Soccorritori che scavano per seppellire di nuovo, cominciano a rendersi conto di ciò che è accaduto e iniziano a comprendere la vastità della perdita, fisica e psicologica. E’ questo il momento della rabbia e del pianto inconsolabile, quella che nasce dal non trovare più la propria casa, i propri cari, i propri punti di riferimento di una Comunità cancellata dall’onda del Vajont. Si piange fino a quando non si hanno più lacrime, si sente una profonda amarezza e un dolore che prende sempre più forma. Tutto questo nel corso delle settimane successive diventa più intenso, perché l’oggettività dell’accaduto è sotto gli occhi di tutti: la perdita di un caro, della famiglia, del proprio paese, della propria casa. Si iniziano a celebrare i primi riti funerari, momento di svolta tra ciò che è passato e ciò che sarà. Il funerale, infatti, raccoglie molteplici significati: è il tempo della commemorazione di tutto ciò che si è perduto, ma è anche il momento della rabbia dei Sopravvissuti che non si spiegano perché tutto questo sia successo ad altri e non a se stessi. Si identifica un colpevole, la ENEL-SADE , che funge da capro espiatorio per ogni lutto e perdita. Ma anche questo sentimento è nato prima, anni prima, quando la SADE durante la fase di progettazione della diga ha legalizzato gli espropri delle case lungo il fiume, dei terreni su cui intere famiglie vivevano grazie all’agricoltura,ed ha permesso, durante i primi invasi, l’allagamento di tutte le costruzioni intorno al futuro lago.


In seguito alla catastrofe inizia la solitudine, manca un contenitore fisico per far fronte a tutte le
necessità dei familiari rimasti soli e dei Superstiti : c’è bisogno di una rete sociale, un sostegno che
vada oltre l’appoggio concreto, ma che si faccia carico di tutti i loro sentimenti. Anche chi arriva da
fuori, le Istituzioni dello Stato, i rappresentanti di altri Comuni esprimono la propria incredulità dell’accaduto e fanno promesse per aiutare i sofferenti, che si sentono soli, che si chiudono nel loro dolore e aspettano che tutto passi, forse.


Ma per pensare a tornare a stare bene, bisogna attraversare prima una lunga sofferenza; per mettere la parola “fine” e voltare pagina, è necessario toccare un dolore profondo e autentico; solo dopo si potrà pensare ad una ricostruzione psicologica della perdita. Questa sofferenza, però, non è fine a se stessa: ha la funzione di permettere l’espressione della rabbia e del dolore intenso e ora, solo adesso, si può iniziare a ragionare su un possibile “dopo” Vajont. In tal modo si può riflettere su come ricostruire Longarone, Erto, quali criteri usare e rispettare per creare un legame col passato, senza stravolgerlo di nuovo, su come usare la Memoria dei Sopravvissuti per la nuova Comunità da ricostruire. Questo momento ha la funzione di realizzare che ciò che c’era prima non esiste più, che i nostri Cari non torneranno a casa dopo il lavoro, che la Chiesa dove ci si è sposati non può celebrare il rito funebre di tutte le Vittime e che della casa, la propria casa, costruita con molti sacrifici non ne esiste più traccia. E’ un momento duro, di nuova sofferenza, che lascia spazio, col tempo ad una futura riorganizzazione psichica, permettendo il sano passaggio tra prima e dopo.


Si parla quindi di ristrutturazione di sé, che determina l’inevitabile confronto con nuove difficoltà, ruoli sociali e familiari diversi e sconosciuti. Il passato ha acquistato un nuovo significato: non è più il momento verso cui tendere per ricongiungersi, in maniera onnipotente, con chi si è perso, ma è il punto da cui ripartire per costruire il proprio presente, poi il proprio futuro. Questa è una fase integrativa col nuovo Sé e il nuovo paese, che non esula dal non sentire ancora dolore, tristezza e senso di vuoto, ma si inizia a percepire anche il legame sociale “ in costruzione” e l’avanzare di nuove prospettive future.


Ogni sentimento ha comunque una propria delicatezza, decorso e modalità : la riorganizzazione psichica non avviene secondo un tempo preciso, stabilito dall’esterno, ma per poter essere considerato “sano” deve essere completato lungo il percorso di queste quattro fasi.


Le caratteristiche dell’elaborazione di un lutto sano


Come permettere quindi alle persone colpite da tale tragedia ad avere una nuova possibilità? La risposta è molto complessa, perché l’ottica della “guarigione” può avvenire prima di tutto quando la Comunità riconosce che c’è il bisogno di intervenire, senza lasciare ai singoli la sola responsabilità di affrontare tutto da soli. Un modello a rete sarebbe utile per molteplici motivi: primo tra tutti la persona colpita avrebbe più possibilità di essere sostenuta e l’aiuto stesso sarebbe distribuito: questo permetterebbe di non farsi carico da soli di un dolore così grande ed inconsolabile. Dalle testimonianze dei Sopravvissuti (...libro Vajont) l’aiuto immediato è stato importante: i soccorsi sono arrivati qualche ora dopo l’accaduto, e vi hanno partecipato in molti; la risonanza ha supearto i confini italiani, ma finita l’emergenza tutto piano piano si è spento: gli orfani sono stati spostati dai parenti e spesso i fratelli separati, chi è andato in collegio, chi per mesi in ospedale non sapeva che cosa fosse accaduto. Altri superstiti sono stati ospitati da amici in altre città e così il tessuto sociale si è sfaldato del tutto. C’è chi ha solo potuto constatare la perdita dell’intera famiglia e della casa, senza poter essere supportato da nessuno.


Com’è stata aiutata la popolazione superstite nelle altre fasi successive all’urgenza? Quali supporti
psicologici sono stati messi in campo dalla Sanità Pubblica negli anni seguenti la tragedia? Quale rete sociale si è creata a fini protettivi per i sopravvissuti?Dalla ricerca condotta dall’Università di Padova (“Conseguenze psicologiche di disastri naturali e tecnologici: la testimonianza dei sopravvissuti al disastro del Vajont” C. Zaetta, P. Santonastaso, G. Colombo, A. Favaro, Giornale di
Psicopatologia 2007; 13: 177 – 186 ) le persone intervistate tutt’ora soffrono di un disturbo post –
traumatico da stress o di depressione maggiore, segno che a distanza di anni, ancora oggi nessuno è stato in grado di prendersi la responsabilità di aiutare dal punto di vista psicologico la gente colpita; se 40 anni fa non si aveva la cultura e la sensibilità verso la prevenzione psicologica, oggi non si può negare che non solo manchi la consapevolezza della necessità di aiutare i Superstiti, ma non c’è neanche la volontà comune di fare il primo passo per rimediare ad una così grande mancanza.


Questa riflessione basata sulle testimonianze dei Sopravvissuti non significa che non esista un modo sano per affrontare un lutto così tragico. Nella prima fase in cui la persona ha subito una grande sofferenza (Bowlby J., Attaccamento e perdita, Bollati Boringhieri, 1983) c’è bisogno di avere un “consolatore” che l’aiuti a tornare sull’avvenimento, a pensare a piccoli passi a ciò che è accaduto. In questo momento il tempo è dedicato a dare informazioni di ciò che è capitato, ma solo quando la Vittima se la sente di chiederle, in modo da permettere di integrare piano piano modelli e
conoscenze precedenti. Il Superstite deve essere messo nelle condizioni si essere supportato al
momento del bisogno da avere così una “base sicura”, utile, premuroso, che possa ridurre l’ansia, che ne fortifichi il morale e lo aiuti a scegliere senza fretta cosa sia meglio per lui. L’interlocutore ha così una doppia funzione : affettiva e storica, in modo che attraverso di lui, la Vittima possa ricostruire la propria storia, intregnando la perdita. Le famiglie che hanno accolto le Vittime, i luoghi in cui hanno passato i mesi successivi al 9 Ottobre sono riusciti ad essere una “base sicura” per loro? Hanno saputo cogliere le difficoltà, porgere una spalla o uno spazio per esprimere rabbia e dolore intensi? La Comunità ha offerto loro una base su cui ricostruire un’identità una volta tornati a Longarone? E oggi Longarone è una base sicura?


Questo presupposto nasce dalla necessità di capire che la tragedia non è l’unico problema da affrontare e risolvere come uno meglio crede e può, ma che determina un futuro da costruire da capo, dove le radici sono state strappate via prima dal vento, poi dall’acqua e fango, ma ora devono attecchire di nuovo, per rinascere. Dov’è a Longarone il posto per rinascere?


Un pensiero dedicato va ai bambini del Vajont, coloro cioè che sono rimasti orfani e non hanno avuto la famiglia d’origine a cui aggrapparsi, dopo. I piccoli hanno molte risorse, ma devono essere sostenuti per poterle sviluppare; rispetto all’adulto il bambino non ha ancora interiorizzato una figura degna di rappresentare la fiducia che nei momenti di difficoltà gli permetterà di far andare tutto bene; egli non ha imparato a sopravvivere da solo, ad affrontare qualche cosa di sconosciuto e non può decidere da sé . E’ in grado di sentire il dolore, ma ha bisogno di affrontarlo e capirlo con l’aiuto di una persona empatica; quando rimane orfano la Comunità ha il dovere di pensare come egli potrà affrontare la tragedia e soprattutto come aiutarlo a riprendere il controllo attivamente della propria vita. Infatti chi ha seri problemi post traumatici ricostruisce la vita sulla base del disastro e resta passivo per molto tempo. Una caratteristica di colui che affronta e supera il trauma è quella di sapere di avere le caratteristiche caratteriali interne a se, senza aspettare che sia il mondo esterno ad intervenire in toto. Questa posizione attiva, predispone un atteggiamento più propositivo e positivo, che col tempo diventa un utile strumento di cura e “guarigione”.


Nell’ottica Comunitaria i Servizi Sanitari hanno la responsabilità di farsi carico di diventare la “base
sicura” per gli orfani e per coloro che hanno maggiori difficoltà ad affrontare il proprio dolore; inoltre costruire una rete di attività utili al confronto sociale permetterebbe a coloro che sono nati dopo di capire, sentire il vissuto dei Sopravvissuti e ri- costruire insieme una nuova identità, non solo personale ma dell’intera Comunità.


Nel momento in cui questa operazione di riconoscimento del dolore altrui non è possibile, la Vittima si chiuderà nel proprio dolore e costruirà intorno a sé una corazza protettiva ( ibidem) utile a non sentire più fino a perdere interesse verso ciò che accade: la difesa rende immuni dal dolore, ma al prezzo di non avere più la possibilità di percepire cosa c’è di bello nella Vita, e di non poter ricostruire il proprio futuro.


In conclusione credo che noi abbiamo il dovere di fermarci ed ascoltare non solo chi grida, ma chi soffre in silenzio e costruire intorno a loro un aiuto che parta dal riconoscimento dell’immane sofferenza patita e che ancora è presente; ogni volta che la Comunità compie un passo in avanti per superare ciò che è stato, ha il dovere di chiedersi chi lascia indietro.

 

Articolo disponibile in formato PDF